Roberto Ramirez Merino, «La mia esperienza al servizio dei più piccoli»

«Il calcio di oggi ha perso inventiva, dalla ”cantera” si può apprendere tanto». L’augurio alla Salernitana e alla Nocerina


Roberto Ramirez Merino, grande ex calciatore della Salernitana e grande rimpianto per i tifosi del cavalluccio marino. Doppio rimpianto.

Merino, innanzitutto, come sta?
«È un piacere essere qui con i lettori di RTAlive e vi ringrazio per avermi invitato. Sto benissimo, ma permettetemi di rivolgere il primo pensiero a Gigi D’Urso, un nostro delegato della casa madre Nonna Maria, è stata la nostra fonte di ispirazione. Purtroppo è scomparso lo scorso anno in un tragico incidente. Ero molto legato a lui, lo chiamavamo Ad Maiora, e un saluto anche al dottor Amendola che è una persona squisita ed estremamente competente».

È rimasto nel cuore di tutti i tifosi Salernitani e non solo, ma partiamo dal principio, proprio dai primi calci al pallone, spiegandoci come è stato possibile vedere calciatori di un livello estremamente inferiore al suo, calcare palcoscenici internazionali a dispetto di quello che lei ha raccolto nella sua carriera…

«Sono nato e cresciuto in Perù e giocavo a calcio per strada, in periferia, nei quartieri, ma la mia famiglia ad un tratto decise di lasciare il paese affranto dall’inflazione negli anni Ottanta. Le scelte erano due: andare in America o in Europa e alla fine mia madre decise per la Spagna. Da lì in poi ognuno ha preso la sua strada. Avevo questo talento, questo dono ed ebbi la fortuna di essere adocchiato da alcuni osservatori della cantera – vivaio, ndr – del Barcellona che si interessarono a me e mi fecero sottoscrivere il contratto: da lì inizia la mia storia».

Però è arrivato alla Salernitana a 27 anni, nel pieno della tua maturità calcistica ed era già soprannominato “Il Maradona Delle Ande”. Cosa le ha impedito di giocare in un top club?
«Il soprannome Maradona Delle Ande non mi è mai piaciuto perché di Maradona ce n’è uno soltanto. È un argomento molto complesso e difficile da semplificare ma imputerei il tutto alla maturità del momento e al non avere avuto la fortuna di avere un procuratore fisso quando ero nel pieno delle mie capacità fisiche e tecniche.

Poi a vent’anni quando ti trovi nel vortice della fama e dei soldi, non è facile concentrarsi solo sul tuo futuro ma la mia fortuna è stata la mia educazione alla famiglia e l’essere credente che mi hanno conferito il giusto equilibrio per arrivare dove sono arrivato ed essere l’uomo che sono. Su treno della gloria ne sale uno su mille ma io mi ritengo un fortunato. Ho conosciuto Iniesta, Xavi, ma anche tanti giovani calciatori che erano fortissimi e purtroppo non ce l’anno fatta. Nel calcio ci vuole fortuna e come ti dicevo mi sento molto fortunato, ho le mie attività, parlo diverse lingue, ho preso il patentino da allenatore e a parte calcisticamente, sono ancora molto giovane (ride), ho 40 anni e posso fare ancora tante cose».

Torniamo adesso alla Salernitana e qui il primo rimpianto: Fabrizio Castori. Ironia della sorte, il tecnico che non la faceva giocare, che forse non credeva nel calciatore di maggior talento che aveva, è lo stesso artefice della gioia più bella degli ultimi vent’anni granata, la storica promozione in serie A. Cosa successe a quel tempo? Perché non riusciva a prenderti la maglia da titolare? Lei giocò solo le ultime otto partite in cui segnò forse il più bel goal della storia Granata: da centrocampo contro l’Albinoleffe…
«Sono un uomo di valori e molto credente nel Signore e sposo da sempre il che chi porta rancore non va mai in paradiso, è un veleno che resta lì. Per il calcio italiano ero un giocatore ignoto anche se avevo giocato in Europa League e avevo giocato nella serie A svizzera nel Servette e li fui visto da Christian Karembeau, famosissimo calciatore che si innamorò di me calcisticamente e mi porto in Grecia all’Atromitos, poi complice il fallimento della società rimasi fermo quasi un anno ad allenarmi da solo. In Italia sono arrivato grazie alla segnalazione di José Alberti, noto personaggio del calcio che ha segnalato i più grandi numeri 10 sudamericani della storia ed è stato proprio lui a darmi il soprannome: Il Maradona Delle Ande.

Tornando a Castori, ero un giocatore ignoto per lui, non parlavo l’italiano e la squadra in quel momento stava andando malissimo. Poi complice il suo esonero e il clamore della gente che insistevano ovunque, in allenamento, sui giornali, volevano sapere chi fosse questo Merino, il tecnico subentrante Brini decise di schierarmi ed io colsi a pieno quell’occasione con tutta la fame e la determinazione che potevo avere e riuscii ad entrare nel cuore dei tifosi grazie a delle ottime prestazioni e a quel goal da centrocampo che poi ha fatto il giro del mondo».

E qui arriviamo al secondo rimpianto. Il presidente di quella Salernitana era Antonio Lombardi che decise al suo secondo anno, di costruirle una squadra intorno che esaltasse le sue qualità, ma un brutto infortunio al crociato prima dell’inizio del campionato, ha rotto un po’ le uova nel paniere. Andò anche peggio: quella squadra retrocesse in serie C classificandosi all’ultimo posto.
«Si esatto, aveva costruito quella squadra su di me, ma posso dire con tutta onestà che quella squadra con 3/4 innesti di spessore avrebbe potuto giocarsi la promozione in serie A. Era una squadra fortissima, c’erano Di Napoli, Iunco, Scarpa, è stata davvero una sciagura inspiegabile. Mi ricordo il calciomercato di quell’anno, si parlava di Napoli, Palermo e del Porthsmut ma alla fine rimasi con piacere alla Salernitana.

Non dimenticherò mai nella mia vita quando decisi di fare il recupero dall’infortunio al Grand Hotel Salerno, impegnandomi 24 ore al giorno, grazie anche alla pazienza del dottore Italo Leo, ai fratelli Forte, a Nicola Confessore e soprattutto tutti i tifosi che mi hanno supportato e mi fecero una standing ovescion quando dopo 6 mesi riuscii finalmente ad tornare in campo, lo porterò per sempre nel mio cuore ed è un sentimento reciproco».

Però la Salernitana retrocesse. Da svincolato ha avuto poi una breve parentesi all’estero salvo poi ritornare in Italia alla Nocerina dove ha acquisito il secondo soprannome: Mago Merino. Grazie alle sue giocate, ha saputo incantare anche la tifoseria molossa segnando otto goal in quella stagione in serie B.
«Dopo la Salernitana ci fu una breve parentesi negli Emirati Arabi, siccome la Fifa non mi permetteva di giocare in tre campionati diversi nello stesso anno a meno che non fosse un campionato già iniziato, decisi di tornare in Perù, alle mie origini sfatando il detto che nessuno è profeta in patria. Andai a giocare nel Juan Aurich nello stadio VS Alianza Lima che ironia della sorte era proprio vicino a dove sono nato ed era la squadra dei bisnonni del mio fratellastro.

Era una famiglia molto ricca che emigrò in Perù ai tempi della guerra, lavoravano la terra e costruirono questa squadra fortissima e come nelle migliori favole, vincemmo lo scudetto in serie A. È stata una cosa straordinaria, tutta la mia famiglia era contentissima. Per altro il vice presidente si chiamava Merino Aurich, perché a quei tempi le due famiglie per puro caso incrociarono i loro destini. Per farti un esempio, è stato come se la Salernitana vincesse lo scudetto o come è successo al Leicester di Ranieri, una cosa magnifica.

Dopo lo scudetto firmai un triennale ma avevo bisogno di cambiare aria, avevo bisogno di nuovi stimoli ed andai in prestito alla Nocerina e qui sottolineo un fatto importante: io amo la Campania, sono innamorato del modo di vivere di questa gente ma so che c’è rivalità calcistica tra Nocerina e Salernitana. So che ho creato dispiacere da entrambe le parti ma ho nel cuore entrambe le tifoserie nella maniera più pura possibile.

Il calcio è anche un lavoro e ti porta ovunque ma la passione non ha colori e spero che un giorno tutta la Campania possa gioire delle vittorie di entrambe le compagini, anzi di tutte le compagini campane, festeggiando insieme ogni traguardo. Auguro alla Salernitana di rimanere più a lungo possibile in serie A e alla Nocerina di riprendersi il palcoscenico che merita».

Progetti futuri? Ha avuto il primo incarico da allenatore grazie alla mediazione di Simone Vazzana con cui conti di intavolare tante altre iniziative, ha avuto un contratto di un anno per allenare una squadra di “giovanissimi” calciatori e in un mese hai vinto anche un torneo…
«Si, abbiamo abbracciato insieme questo progetto di allenare i bambini perché vorrei portare la mia esperienza della cantera del Barcellona che adotta una metodologia unica e poi perché bisogna stare sempre vicino ai bambini aiutandoli a crescere nel modo giusto. La cantera fa crescere l’alunno, l’alunno fa crescere il docente, è un triangolo perfetto e vincente come hanno ampiamente dimostrato incantando il mondo.

Grazie alla cooperazione di Simone Vazzana che è un amico e al presidente di questa associazione, abbiamo abbracciato questo progetto ma abbiamo deciso fermamente di procedere con estrema calma, facendo le cose per bene e senza fretta, facendo passi piccoli ma solidi».

Il suo sogno è fare l’allenatore? Magari un giorno proprio alla Salernitana?
«Mah non lo so, per ora ho solo bisogno e voglia di crescere piano piano e portare la mia esperienza al servizio dei più giovani. In estate, quando i campionati sono fermi, vado in vacanza in Spagna e li incontro molti ex colleghi ai tempi del Barcellona con cui ho un rapporto amichevole e di profonda stima. Uno di questi è Mikel Arteta con cui ho giocato sia insieme che contro un una finale, che come Guardiola e tanti altri, sono la dimostrazione che gli insegnamenti della cantera del Barcellona portano risultati visibili sotto gli occhi di tutti.

Questo succede perché li si insegna il rispetto dei ruoli, i valori, l’educazione e ovviamente il calcio all’insegna dello spettacolo. Credo molto nel DNA del quartiere popolare, è li che si forma gran parte del tuo carattere. Purtroppo in Italia si è persa la capacità inventiva e lo dimostra il fatto che i vari Del Piero, Baggio, Miccoli stentano a nascerne altri, la gente non gioca più per strada e questo ne limita molto l’inventiva e la capacità di sperimentare. Il mio obiettivo è proprio quello di seminare all’interno del quartiere popolare cercando di tirar fuori da ogni singolo bambino tutto l’estro che gli appartiene ma non solamente calcistico ma a 360 gradi, educazione, psicologia, rispetto».

Un saluto ai tifosi?
«Ho già fatto i miei complimenti al nuovo presidente e al suo entourage per la storica salvezza in serie A, gli auguro il meglio così come lo auguro a tutti i tifosi della Salernitana. So con quanta passione seguono la squadra e li ringrazio di cuore per la stima nei miei confronti che mi dimostrano ancora oggi. In Perù conoscono la Salernitana ormai da quando giocavo qui, ho parlato di Salerno nelle varie Tv e mi auguro davvero che possa rimanere sempre in serie A perché per me è la categoria che gli compete di diritto».

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