Ma i soccorsi tardano ad arrivare in Siria Dal Libano alla Giordania, in Medio Oriente è corsa alla solidarietà per salvare vite. Il contesto
Per RTAlive, da Beirut Giuseppe Acconcia
“Erano le tre di notte quando abbiamo avvertito due fortissime scosse di terremoto. Abbiamo avuto paura. Cadevano oggetti dappertutto. Siamo scesi in strada”, ci ha detto Soumar. I suoi familiari di Aleppo sono stati per ore intrappolati in casa prima di poter scappare. “La città di Aleppo è stata distrutta anche da questo terremoto”, ha aggiunto Basel. “I miei familiari hanno lasciato casa senza poter prendere neppure i vestiti. Hanno passato la notte al gelo e ieri hanno dormito in macchina”, ha proseguito. I racconti dei siriani colpiti dal terremoto sono davvero strazianti.
I SOCCORSI TARDANO AD ARRIVARE IN SIRIA
“È stato terribile. Ci sono scosse continue da due giorni. Tutti hanno lasciato le loro case, alcuni si stanno rifugiando nelle montagne. La città di Afrin è distrutta”, ci ha raccontato Bassem, curdo siriano che lavora e vive a Beirut. La sua città come tante altre del Kurdistan siriano è ancora in stato di emergenza dopo il terremoto che alle tre della notte tra domenica e lunedì ha scosso con un’ondata devastante l’intera regione.
“In Rojava non arrivano soccorsi”, ha aggiunto. La macchina internazionale che si è mobilitata per le province turche spesso non include questi villaggi in Siria, nonostante le migliaia e migliaia di morti e feriti. Soccorsi e aiuti sono partiti dal Kurdistan iracheno, dall’Iran, dall’Algeria e dal Libano.
“Non ci sono operazioni adeguate alla portata del terremoto nel Nord della Siria”, ci ha confermato il giornalista, Raghid Awdeh. Il giovane piange la morte tra le macerie di un suo collega e amico, Ghieth Abu Ahmed. Il giornalista siriano è morto tra le macerie di Darayya dopo la prima scossa. “Continuano a crollare palazzi, le immagini dalla Siria sono devastanti”, ci ha raccontato commosso. Pochi possono permettersi dei trasporti privati per lasciare la città di Aleppo, già duramente provata da dieci anni di guerra.
E, mentre il gelo rende le operazioni di soccorso ancora più difficili, tutti si aspettano nuove scosse. “Gli ospedali sono al collasso. Continuano ad arrivare feriti”, ci ha spiegato Soulayman. “La seconda scossa c’è stata ieri (lunedì, ndr) alle 12.30, la terza alle 18.30”, ha aggiunto il medico che si aspetta una nuova scossa nei prossimi tre giorni. “I sismologi avevano previsto che in questo periodo potessero esserci dei terremoti ma nessuno si aspettava questa devastazione. È stata avviata una macchina enorme di tecnici per valutare la stabilità degli edifici”, ci ha spiegato Ibrahim. Ma era dal terremoto del 1882 che Aleppo non subiva tanti danni per un sisma.
Mentre non si fermano le operazioni per mettere in salvo chi è rimasto sotto le macerie anche a Idlib, altra città siriana duramente colpita dalla guerra. Le province curde siriane sono passate così dalle celebrazioni dell’ottavo anniversario dalla liberazione di Kobane dallo Stato islamico (Isis) nel gennaio 2015 alla distruzione portata dai continui attacchi turchi, fino agli ultimi raid che nel 2022 hanno fatto seguito allo scoppio della guerra in Ucraina, alle macerie portate dal terremoto due giorni fa. “Ci sono tanti bambini ancora sotto le macerie, bisogna fare in fretta ma non arriveranno aiuti dallo stato turco che continua a bombardarci”, ci spiega Rojin, attivista curda molto provata.
Un terremoto che ha devastato anche le province curde turche, portando al crollo di edifici storici di valore a Gaziantep e a una lotta contro il tempo per salvare vite nelle macerie a Iskenderun. Mentre resta vivido nel ricordo delle persone la devastazione che produsse il terremoto di Istanbul del 1999. “Gli effetti di un terremoto così devastante sono difficili da prevedere. Ma troppe persone abitavano già in case fatiscenti e in condizioni disagiate per la guerra”, ha commentato Tala, rientrata a Damasco poco prima del sisma.
LE SCOSSE AVVERTITE IN LIBANO E GIORDANIA, TRA ANARCHIA E SOLIDARIETÀ
Un clima di mobilitazione e tristezza senza precedenti per le migliaia di morti che sta coinvolgendo anche libanesi e giordani. A centinaia sono scesi per le strade di Tripoli, la città del Nord del Paese più vicina all’epicentro nella notte di domenica per timore di crolli, che puntualmente si sono verificati nel distretto di Ain Atta. I negozi sono rimasti chiusi nelle principali città del Paese mentre tutti gli eventi pubblici sono stati cancellati in solidarietà con i milioni di siriani che vivono nei Paesi vicini.
In pochi giorni i prezzi dei trasporti, degli alimentari, dei bar e dei ristoranti hanno subito aumenti vertiginosi a causa della scalata del dollaro che ha fatto precipitare al suo minimo storico la lira libanese (mentre scriviamo 1 dollaro vale ben 60mila lire libanesi). “Chiunque possa, cambia non più di 100 dollari alla volta per perdere il meno possibile con tassi di cambio così fluttuanti. Tutti aspettano il momento migliore”, commenta Camille, un’attivista che vive da anni nel quartiere residenziale di Hazmieh. Secondo la Fao, il 30% dei libanesi non riesce più a procurarsi il cibo quotidiano sufficiente.
“Nonostante la crisi c’è molta solidarietà. E già sono partiti i soccorsi per aiutare chi è stato colpito dal sisma. Qui non c’è un presidente, non c’è lo stato, le scuole sono private, non c’è illuminazione. Eppure il Paese non si ferma. Mi sembra che il Libano sia un grande laboratorio in questo momento”, prosegue. Eppure continuano le proteste per il caro-vita e lo stallo politico. “Negli ultimi giorni ci sono state manifestazioni e assembramenti anche fuori Beirut, a Tripoli, a Sidone. Coinvolgono insegnati, impiegati delle amministrazioni pubbliche, famiglie delle vittime dell’esplosione al Porto di Beirut (2020, ndr)”, aggiunge Carlo, un cooperante italiano.
“I tagli ai sussidi alle scuole hanno messo in ginocchio il sistema che garantiva l’educazione per i profughi siriani”, continua il cooperante. “Se i rifugiati siriani non possono più andare a scuola, i docenti incolpano la mancanza di donazioni internazionali”, conclude. “Ma io non ho intenzione di partecipare a queste nuove proteste”, ci ha spiegato Fadi, che ha partecipato invece al movimento del 2019. “Contro chi protestiamo se non c’è neppure un presidente? Non ha senso”, continua il giovane.
INDAGINI IN SALITA
“La notte del sisma pensavo ci fosse un’altra esplosione come quella del porto di Beirut”, ha ammesso Ramy. Le foto di Joe e Ralf campeggiano per le strade del quartiere cristiano di Furn el- Chebbak. Le loro immagini sono dovunque qui, dalla casa dei loro genitori fino a tutti i negozi del quartiere. Sono due pompieri, tra le vittime dell’esplosione nel porto di Beirut che ha causato oltre 200 morti e migliaia di feriti, il 4 agosto 2020. 2750 tonnellate di nitrato di ammonio, conservate senza garanzie di sicurezza per sei anni in un deposito, hanno causato una delle esplosioni più devastanti della storia moderna, di cui si vedono ancora i segni indelebili nella città di Beirut e tra la popolazione.
Proprio pochi giorni fa, nel contesto di crisi politica senza precedenti che vive il Paese, si è aperto un gravissimo scontro ai vertici del sistema giudiziario libanese. Dopo 13 mesi di stallo, il giudice impegnato nelle indagini, Tarek Bitar, ha iscritto nella lista degli indagati altre figure chiave che sarebbero dietro l’esplosione. Tra gli indagati figurerebbero anche la guida della Sicurezza generale e dei dipartimenti di Sicurezza di Stato, così come l’ex primo ministro al tempo dell’esplosione, Hassan Diab. Eppure le indagini di Bitar sono state bloccate a più riprese. L’ultima volta lo scorso martedì, dopo l’annuncio dei nuovi indagati, con una lettera del procuratore generale, Ghassan Oweidat, secondo il quale Bitar non avrebbe giurisdizione sul caso.
“Siamo stati molto felici e sorpresi che Bitar abbia ripreso le indagini”, ha commentato Hiam, padre di una delle vittime. “Spero che possa chiamare a giudizio tutti i sospettati”, ha aggiunto. Tuttavia, la crisi politica non dà tregua. “Non ci sarà un presidente senza l’accordo di Hezbollah”, concordano tutti. Così come le proteste del 2019 per il cambiamento non hanno portato a molto proprio perché il movimento sciita libanese ha remato contro. Sono piene le pasticcerie “Sadaka” dei quartieri sciiti. Una parte dei proventi dalla vendita di queste leccornie andrà ai più poveri. Così come nelle strade dei quartieri, controllati dal “partito di Dio”, appaiono buche per raccogliere le elemosine che arricchiscono le opere caritatevoli che dal basso sostengono la popolazione locale tra le gigantografie di Moussa al-Sadr, fondatore dell’altro grande movimento sciita, Amal. Mentre nel “Bazar Beirut”, a due passi dall’incrocio di Tayouneh, tanti si affrettano a comprare vestiti di seconda mano a 400mila lire libanese al chilogrammo (circa 8 dollari).
“È molto conveniente”, ammette un avventore. E così all’11esimo tentativo di voto per eleggere il nuovo presidente, non si è arrivati ancora all’accordo politico che superi il nome di Michel Moawad, inviso ad Hezbollah. E così i due deputati, Najat Saliba e Melhem Khalaf, con la pazienza che contraddistingue tanti libanesi, hanno organizzato un accampamento a oltranza fuori dal parlamento sin dallo scorso 19 gennaio perché “senza presidente non si inizieranno mai le riforme”.
UNO STATO NELLO STATO
Il campo profughi palestinese di Bourj el-Barajneh a Beirut è una “No man’s land”. Riecheggiano qui gli ultimi giorni di sangue dagli attacchi israeliani al campo di Jenin che a fine gennaio hanno causato nove vittime all’attentato alla sinagoga della periferia di Gerusalemme che ha provocato sette morti. “Non ci sono leggi nel campo, non c’è polizia, ci sono ladri e spacciatori di cocaina”, ci spiega Ihab.
Soprattutto al tramonto, senza illuminazione pubblica, questo quartiere può essere davvero pericoloso. Di giorno invece spiccano le gigantografie dell’ex presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Yasser Arafat, insieme a quelle del presidente in carica, Mahmoud Abbas, alle bandiere gialle del partito al-Fatah e quelle verdi di Hamas che si scorgono tra barbieri, fruttivendoli, centinaia di fili dell’elettricità che svettano tra palazzi e camion che bloccano in continuazione il traffico. Anche Bourj el-Barajneh, come i più noti Sabra e Shatila, centro dei massacri di migliaia di palestinesi nel 1982, non ha più niente del campo temporaneo, fatto di tende, ma è un vero e proprio quartiere di Beirut, una città nella città, con strade e palazzi, a due passi dai quartieri a maggioranza sciita di Haret Hreik e Chiyah.
E anche qui la crisi che ha messo in ginocchio l’illuminazione pubblica si fa sentire. “I privati che controllano il mercato dei generatori fanno lobby per non chiudere un problema che si potrebbe risolvere in pochi giorni”, ci assicura Ali che fatica a tenere aperta la sua panetteria. “Con il buio aumenta la criminalità. Qualche giorno fa una ragazza straniera è stata minacciata e derubata con una pistola”, prosegue. In realtà gran parte dei libanesi possiede un’arma. È molto comune sentire sparatorie e vedere il cielo illuminarsi del rosso degli spari, usati per celebrare matrimoni o per altri festeggiamenti. “Ne posseggo una scarica in un cassetto di casa anche io, ma non l’ho mai usata”, ci confida Elie.
“Sono i sostenitori dei partiti maggioritari all’interno dei singoli quartieri a garantire la sicurezza degli abitanti”, prosegue il giovane del quartiere cristiano di Furn el-Chebbak. “Spesso non ci accorgiamo neppure che controllano chi entra e chi esce dalle nostre strade. Ma questo ci permette di stare tranquilli anche di notte”, ci spiega. Il gravissimo terremoto che ha colpito Siria e Turchia nella notte tra il 5 e il 6 febbraio ha messo in allerta un’intera regione, già duramente provata dalla guerra, dalla crisi economica e da una crisi politica e sociale infinita.
Eppure le immagini delle macerie che arrivano dal Kurdistan siriano e turco stanno innescando una corsa alla solidarietà tra le società civili dei Paesi arabi, dove i cittadini comuni sono già abituati in molti casi a doversi rimboccare le maniche, soprattutto nelle situazioni di emergenza, e nell’assenza dello stato.