Nuova missione umanitaria per il medico di Corbara, ex primario di pronto soccorso e chirurgo di urgenza in uno scenario di guerra
Dopo 40 anni di chirurgia d’urgenza, di cui 30 all’ospedale di Nocera, la direzione del pronto soccorso di Eboli, missioni in Kosovo e Afghanistan e sulle principali navi della marina militare, e con un ruolo principale al Covid Hospital di Scafati, Rino Pauciulo è di nuovo pronto a partire per aiutare chi ha bisogno di un medico in zona di guerra. A 69 anni di età, invece di godersi una meritata pensione, nella sua Corbara ha dato l’adesione a una missione della Croce rossa italiana per l’Ucraina. I familiari ormai ne conoscono il carattere e la passione e, rispettandole, seppure con il patema d’animo, le condividono.
Dottore Pauciulo, come parteciperà a questa nuova missione umanitaria?
«La Croce rossa italiana ha chiesto la disponibilità al personale sanitario per organizzare un treno ospedale da impiegarsi in Ucraina per la cura dei feriti in zona di guerra e il loro trasporto in una luogo sicuro. Ho aderito. In queste ore mi ha chiesta la stessa cosa anche un’organizzazione umanitaria internazionale».
Sarà un missione di soccorso a feriti militari o civili?
«Noi medici curiamo feriti e non ci chiediamo chi siano».
E se sono russi? Li curate? Se si, prima o dopo degli ucraini?
«Tendenzialmente si potrebbe essere portati a salvare gli aggrediti, ma noi siamo medici e curiamo, ripeto, tutti, senza alcuna discriminazione e la precedenza è in base alla sola gravità delle ferite».
Qual è il vero motivo che la spinga a 69 anni a partire per una zona pericolosa?
«L’ho detto già ad altri. Basta porre la mano destra sul torace, sulla parte alta a sinistra e se si sente qualcosa si comprende cosa spinge ad andare. Ma a farlo c’è anche la consapevolezza che i sanitari in casi come le emergenze hanno il dovere di intervenire».
Non ha paura? Come fa a rimane calmo?
«Guardi che sono un essere umano e quindi ho paura anche io. Tutto sta a non farsi avviluppare, un po’ ricorrendo all’incoscienza e un po’ affidandosi alla sorte. E poi, l’esperienza di chirurgo di urgenza e le missioni in Afghanistan e in Kosovo, su navi militari, come sulla portaerei Cavour davanti alle coste africane sono un grande aiuto».
Si troverà ad operare senza grandi attrezzature, come farà?
«Sono un chirurgo d’emergenza da decenni e decenni, un lavoro che ti abitua ad intervenire anche in mancanza dell’aiuto degli esami diagnostici. C’è un modus operando che si rifà al principio: “Apri e fai quello che devi fare, in base a quello a cui ti trovi di fronte”. In guerra ogni ritardo può causare la morte del paziente, quindi operi, senza farti bloccare dalle paure».