David Gilmour, la magia Pink Floyd incanta Pompei

Il 7 e 8 luglio 2016 saranno ricordati per sempre dalle future generazioni. David Gilmour, storico chitarrista dei Pink Floyd è tornato all’Anfiteatro di Pompei per due serate, dopo l’epico evento del 1971.

Tutto inizia con una coda. Sin dalla mattina, quando si rimane per un momento spaesati tra la folla di turisti in attesa di acquistare un agognato biglietto per l’ingresso agli scavi e il riordino delle idee, con sequenza mnemonica prenotazione, documento, carta di credito.

Si guarda con ammirazione lo stoicismo degli “stranieri” in fila da ore, pur sapendo di avere un orario limitato fino alle 13 per andare incontro alla storia. Dopo occorrerà lasciare il posto ad un ricordo nostalgico che sa di assoli di chitarra, di una voce non più cristallina, di luci multicolori, di fumi e di un mega schermo a satinare le emozioni. Che sanno di rock.

Sarà stato in quel momento che i tremila possessori della prenotazione si saranno chiesti cosa ci facessero là, a calpestare quella terra di un paio di millenni fa, pronta a concedersi ancora una volta, come la più bella delle lupanare dell’antica Pompei.

Si saranno chiesti quale fosse il vero sacrificio. Se i 300 euro sborsati per entrare nell’Anfiteatro, gonfiate dal monopolio della Ticketone di altri 45 euro per illogici diritti di prevendita e di esclusività; o quelle ore in fila, dalla consegna del biglietto all’apertura dei cancelli, concluse con altre tre ore di concerto, seguito misticamente in piedi.

Si saranno sorpresi di ritrovarsi lì a vivere di persona una leggenda che avevano soltanto sentito raccontare. Pronti a sfidare quel destino bizzarro che ha fissato un appuntamento, al quale era davvero difficile non presentarsi. E si saranno domandati, proprio mentre erano accodati sotto un caldo serale non ancora deciso a cedere alla auspicata brezza serale, se facessero parte di una privilegiata cerchia di appassionati di musica.

Entrare in questo Anfiteatro è stato come varcare una porta del tempo, consapevoli di cosa si sarebbe trovato dall’altra parte. Quando la vista di quelle mura millenarie ha addolcito lo stress dell’attesa, il disagio ad affrontare i sistemi di controllo adottati dagli addetti alla sicurezza o magari quel carico di adrenalina non più controllabile, una strana sensazione di contatto con il passato ha contaminato i presenti.

Non ci sarebbero state risposte altisonanti che potessero descrivere il momento. Nessuna parola cacofonica che avrebbe potuto rendere più mistico quello strano silenzio spezzato da uno scambio di sorrisi ed occhi luccicanti, in cerca di un più adatto messaggio telepatico che rendesse più reale un’alienazione diventata troppo personale.

Non si poteva mancare a questo appuntamento. Non lo si poteva con una parte di noi stessi in cerca di un pezzo della nostra vita, che pensavamo addormentata dal trascorrere degli anni e da una strana paura di continuare a guardarsi indietro.

Certi eventi attirano come calamite di coscienza. Si intrecciano con quelli emozionali dei nostri ricordi. Le nostre fughe dalla realtà dove ci siamo rifugiati nei giorni dei sogni respinti da scomode constatazioni di un’adolescenza da abbandonare troppo in fretta.

Sono state quelle musiche oniriche, quegli effetti sonori ricercati con maniacale voglia di sorprendere e di sorprendersi, quelle parole molto più vicine a versi poetici. Molto più vicini alla nostra stessa vita. Quelle sonorità che hanno marchiato per sempre la produzione dell’intero gruppo dei Pink Floyd, dalla quale sia Roger Waters che lo stesso David Gilmour non potranno mai prescindere.

E’ stato evidente ed inevitabile, anche durante queste due serate all’Anfiteatro di Pompei. Le indubbie atmosfere create dal frutto della più recente creazione di Gilmour, che ha consegnato ai fan due significativi progetti musicali, quali On a Island, uscito nel 2006 e il più recente Rattle that lock, colonna sonora di questi due concerti, ha raggiunto l’apice del coinvolgimento del pubblico quando le prime note di Wish you were here hanno accarezzato le orecchie degli astanti e i vari pezzi previsti dalla scaletta, oltre a farci ricordare il genio fondatore del gruppo, Syd Barrett, ha commosso lo stesso David Gilmour, ricordando il tastierista Richard Wright, scomparso nel 2008 e più volte salutato idealmente durante il concerto.

No, non si poteva non esserci. L’unicità dell’evento e la consapevolezza che appare difficile pensare ad un’eventuale riedizione dello stesso nel prossimo futuro, ha eliminato qualsiasi dubbio. Qualsiasi congettura di natura economica, qualsiasi ipotesi di un rammarico di non esserci stati, qualsiasi sacrificio, se di questo si può parlare, non ha spossato i tremila partecipanti.

Il pregio di questo concerto è quello di aver riunito qualche migliaio di persone provenienti da varie parti del mondo; ha dimostrato anche come la musica riesca dove una falsa diplomazia internazionale fallisce da anni, sforzandosi di soccorrere un messaggio cosmopolita al quale, forse, nessuno più crede.

Gli scambi di emozione tra statunitensi, brasiliani, francesi, australiani e chissà quante altre nazionalità, ha radunato sotto lo stesso cielo esperienze, modi di pensare e culture ai piedi del Vesuvio. La magia della serata è stata affidata alle dita di David Gilmour, scivolate dolcemente su scale musicali, su, fino alle nostre anime.

Le stesse che, sommessamente e già con un pizzico di nostalgia, si sono disposte in un’altra coda, canticchiando le parole di Comfortably numb, il pezzo che ha chiuso i due concerti, sfiorandosi verso l’uscita.

Piero Buscemi
Foto: Gerardo Mariniello

loading ads