Diocesi Nocera-Sarno, le riflessioni del Vescovo sul II novembre.

Credis hoc? – credi questo?

 

«Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore». (Rm 14, 8)

«Credi questo?». (Gv 11, 26)

 

«Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati». (1 Cor 15, 16-17)

 

«Tutto il male che fanno i cattivi viene registrato a loro insaputa. Il giorno in cui Dio non tacerà… egli si volgerà verso i malvagi e dirà loro: “Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra li ho costituiti come i vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me”» (S. Agostino, Sermones, 18, 4,  4: PL 38, 130-131).

 

 

Carissimi, mentre la Chiesa, preceduti dalla testimonianza e dalla comunione di Tutti i Santi, invita a farci pellegrini verso i Cimiteri per ricordarci che la vita è un pellegrinaggio di amore, «non vogliamo, fratelli, lasciarvi nell’ignoranza a proposito di quelli che sono morti, perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza» (1 Ts 4, 13).

Gli altri… non credono nella resurrezione della carne e nella vita del mondo che verrà, e si lasciano confondere da false dottrine diventando, così, zucche vuote.

Negli areopaghi e nelle agorà della nostra cultura contemporanea, quante volte si rinnova la reazione dei cittadini di Atene verso Paolo: «Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dicevano: “Su questo ti sentiremo un’altra volta”» (At 17, 32).

Noi, per grazia, abbiamo ricevuto il dono della fede e abbiamo il dovere di illuminare, con dolcezza e rispetto, le nostre strade buie spargendo il sale della gioia cristiana. Ma gli altri che non hanno la speranza, cioè Cristo, sono sempre nostri fratelli, che camminano con noi e attendono da noi una parola speranzosa.

Gli altri e noi, poi, siamo sempre mendicanti di verità, e, per noi e per gli altri, «in faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo» (Gaudium et Spes, 18) e, perciò, gridiamo: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4, 38).

Noi abbiamo ricevuto e dobbiamo trasmettere la fede nella Resurrezione in Colui che ha detto: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno. Credi questo?» (Gv 11, 25-26).

Affascinati e illuminati dal Risorto, questa lettera che vi arriva in occasione del 2 Novembre, vuole essere un colloquio sereno e sincero, una catechesi, quasi eco di quel dialogo stupendo tra Agostino e la madre Monica, al davanzale di una finestra ad Ostia, riportato nelle Confessioni dal vescovo di Ippona.

Scegliamoci anche noi, oggi, in questa cultura fluida, una finestra per poter parlare di eternità: «Non passa giorno che io non guardi il cielo. Forse la mia vera casa sta da quelle parti» (G. A. Cibotto).

«Parlavamo soli con grande dolcezza, e dimentichi del passato, ci protendevamo verso il futuro, cercando di conoscere alla luce della verità presente, che sei tu, la condizione eterna dei santi» (S. Agostino, Confessioni).

Protesi al futuro, non ripiegati sul presente, non girati indietro, ma tesi in avanti, animati dalla speranza, affrontiamo il “delicato tema della morte”, che non è l’ultima parola, ma “terra di passaggio” verso il Regno, sapendo che «Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità… ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo» (Sap 2, 23-24).

Quante finestre di case, ospedali, città, anelano a riprendere il dialogo sulla malattia, la morte, senza nasconderla dietro un paravento, per comprendere la fragilità e la verità di ogni uomo, che sa che «non moriamo… solo alla fine, ma durante tutta la vita» (K. Rahner).

Da quelle finestre ognuno potrebbe, per trarne beneficio, ripetere le parole del Testamento di un Padre della Chiesa moderna: «Fisso lo sguardo verso il mistero della morte, e di ciò che la segue, nel lume di Cristo, che solo la rischiara; e perciò con umile e serena fiducia» (Paolo VI).

Quando muore una persona, facciamo fatica, avendo dimenticato la grande lezione della Chiesa sulla buona morte (ars moriendi), a trovare le parole giuste per dire la morte «salario del peccato» (Rm 6, 23) e allora ci affidiamo ad un raggiro di parole, sinonimi: la persona è scomparsa, non è più, se ne è andata, è ritornata nella casa, si è addormentata, è passata…

Tante parole, tutte vere, ma utilizzate per non saper dire semplicemente “sorella morte”.

è sconveniente parlare della morte, è tabù, oggetto di vergogna e di censura, si arriva a definire oggi la «pornografia della morte» (Geoffrey Gorer), aprendo così di più la strada alla cremazione senza fede, alle sale del funeral home, dove una toilette minuziosa e ambiziosa cerca di riportare il defunto alla sua condizione naturale.

è importante che non si capisca, che i bambini non vedano, che nelle città tutto continui come se nulla fosse accaduto.

Il lutto è vietato, è antico, fuori moda. è uno smacco al progresso. E si muore in privato, senza famiglia, mentre altri gestiscono la nostra morte. Una cultura, che nasconde la morte, produce una “cultura di morte”, esiliando la vita.

Pensiamo così di aver sconfitto la morte?

Siamo lontani dalla lezione della Croce!

Che grande catechesi il morire di Giovanni Paolo II, come un santo!

«Siamo grandi, orgogliosi, potenti,

ma nessuno ci salva dalla morte, o Cristo.

Tu solo hai vinto, morendo, la morte.

Non chiediamo di non morire,

chiediamo di sperare nella tua morte;

che la nostra morte ritorni una cosa dignitosa,

che sia cristiana almeno la morte» (David M. Turoldo).

 

Dove siete?

 

Dove siete, voi, che appena ieri eravate qui?

Dove siete, voi con i quali abbiamo amato, sofferto, pensato, progettato, costruito, cantato, danzato?

Dove siete, amici delle nostre primavere; delle nostre estati; degli inverni lunghi e dei malinconici autunni?

Dove siete, voi che, all’improvviso, con una telefonata nel cuore della notte, siete stati richiamati?

O, dopo un lungo e inenarrabile calvario, avete smesso di farci soffrire… o siete volati lungo le autostrade della nostra vita, lasciandoci in un baratro di solitudine?

Dove siete? è la domanda che ci poniamo dal momento in cui cominciano i giorni senza di voi.

Può una vita, impastata d’amore, segnata dal soffio creatore di Dio, sbriciolarsi tra le dita?

Dove siete, bambini innocenti, martiri di ieri e di oggi?

Dove siete mamme, papà, fratelli, sorelle, figli, amici?

Dove siete, voi che, liberamente, in un momento di buio, avete staccato la spina della vita?

E dove siete, voi che, nel tempo, avete celebrato i misteri dell’Eterno?

Dove siete, voi sempre mendicanti di pace e di felicità?

Siete una foto sbiadita, un gruzzolo di parole, che cercano di spiegare il mistero di una vita?

Dove siete, amici di primavere sempre nuove, giovani fissati per sempre con la giovinezza nell’eternità?

Dove siete, voi con i quali, tante volte ridendo, abbiamo scherzato anche della morte?

Dove siete, ricchi, diventati dinanzi alla morte poveri all’improvviso?

Dove siete, voi poveri, arricchiti solo e sempre dalla beatitudine di Dio?

Dove siete, voi che all’improvviso, con una valigetta piena di domande, con tante cose ancora da fare, ve ne siete andati, lasciandoci soli sullo stretto marciapiede della terra?

C’è stata per tutti voi una finestra dalla quale avete guardato più in avanti?

Dove siete?

 

Semplicemente, tre risposte

 

  1. La prima è una risposta amara che, nel tempo del dolore, lascia il vuoto nel cuore.

 

«Ogni vero dolore viene scritto su lastre di una sostanza misteriosa al paragone della quale il granito è burro» (Dino Buzzati).

I vostri corpi, adagiati con tenerezza nelle bare, riposano nel cimitero. Dormite, in attesa di sentire il «suono dell’ultima tromba» (1 Cor 15, 52), in quel pezzo di terra che la pietà cristiana ha chiamato camposanto. Lo dice Gesù: «non è morta, ma dorme!» (Mt 9, 24).

Per questo i cimiteri sono detti anche dormitori. Il tesoro della vita è custodito in un vaso di creta che, all’improvviso o consunto dagli anni, si rompe e la vita se ne va… il soffio vitale si stacca dal corpo. Essi sono là… «ci hanno preceduto, non sono assenti… ma con i loro occhi guardano i nostri pieni di lacrime» (S. Agostino).

I nostri cimiteri: dal culto dei morti si verifica il grado di una civiltà!

Andiamoci senza paura, con rispetto, per meditare, pregare, per andare a trovare le persone care…

I loro corpi sono là e dormono, come chicchi di grano nella terra, in attesa di riudire la voce del Risorto, dinanzi al libro aperto della vita (cfr Apc 20, 11-14).

Non li dimentichiamo nel contesto di una cultura che «impone oggi i sepolcri fuori de’ guardi pietosi» (U. Foscolo).

Il camposanto è irrorato sempre dalle lacrime degli uomini in attesa che rifiorisca la risurrezione.

«I passi del mio vagare tu li hai contati, nel tuo otre raccogli le mie lacrime: non sono forse scritte nel tuo libro?» (Sal 56, 9).

Dio, Amante della vita, ha immensi archivi di lacrime; per Lui, Risurrezione e Vita, le nostre lacrime sono come perle, tesori nascosti.

Il Dio «vivo e vero […] che ha risuscitato dai morti Gesù» (1 Ts 1, 9-10), tiene come una contabilità delle lacrime umane, perciò nel giardino della risurrezione ripete: «Donna, perché piangi?» (Gv 20, 15) perché «Dio è gioia anche se sei crocifisso. Dio è gioia, anche se muori. Dio è gioia sempre. Dio è gioia perché sa trasformare l’acqua della nostra povertà nel vino della risurrezione» (C. Carretto).

Chiediamo che i nostri cimiteri siano semplici, essenziali, con segni cristiani, che invitino a riflettere, a sperare, che siano un richiamo all’oltre…

 

  1. La seconda risposta ci fa esploratori del cuore umano.

 

Dove siete?

Nel cuore di chi ama. Nessuno muore sulla terra finché vive nel cuore di chi resta. Lo dica il cuore di chi ama: ogni amato è presente!

«Amare un essere è dire: tu non morirai!» (G. Marcel).

Essi sono là: aggrappati al cuore delle madri, dei padri, delle sorelle, fratelli, sposi, spose, figli, figlie, amici.

Figli mai usciti di casa.

«è un grande dolore averli perduti, ma ti ringraziamo o Dio, di averli avuti, anzi di averli ancora perché chi torna al Signore non esce di casa» (S. Girolamo, 85, 1).

«Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3, 14).

Essi sono qui, «ma senza carne umana: la sola parte di te che resta assente» (Manuele Altolaguirre).

Ciò che si perde è grande: la morte ruba a te per restituire a Lui.

Senza la speranza cristiana, per cui «vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21), è difficile continuare a vivere con un’assenza, ma ciò che è stato non verrà distrutto; è una tua conquista, un tesoro tuo, personalissimo, e nessuno potrà strapparti dal cuore ciò che ti resta dopo una vita d’amore.

Ecco, con questa certezza, in attesa di sperimentare una nuova presenza, puoi ancora continuare a vivere perché ciò che hai avuto è tuo per sempre.

 

  1. La terza risposta ci fa pellegrini verso la casa del Padre.

 

Essi sono tornati a casa. Non più la casa con l’indirizzo del tempo, dove tutto ancora parla di loro, ma la casa dell’eternità.

«Sappiamo infatti che, quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è come una tenda, riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2 Cor 1, 6-10).

Essi, in quanto sono definitivamente figli della risurrezione, non possono più morire (cfr Lc 20, 36).

Li pensiamo in “cielo”, cioè in Cristo, in Paradiso; o in Purgatorio per purificarsi; facciamo fatica a pensarli nelle pene dell’inferno perché grande è la misericordia di Dio, anche se chiara è la parola del Signore (cfr Mt 25, 41), e ferita la libertà dell’uomo (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1023-1030-1035).

 

Cosa possiamo fare per voi?

 

Ora che, illuminati dalla Parola, abbiamo saputo meglio dove sono, ci chiediamo: che cosa ancora possiamo fare per loro?

Risponde Gesù: «Non temere, soltanto abbi fede» (Mc 5, 36).

Possiamo ancora fare tre cose: ricordare, pregare, donare.

Ricordarli, innanzitutto, parlare di loro, parlarne ai piccoli, sentirli presenti alle nostre feste, ai nostri anniversari perché essi hanno ancora la capacità di radunare le famiglie, tante volte divise.

Imitare i loro buoni esempi, gli insegnamenti.

Parlare ai ragazzi, con parole adatte, di chi non c’è più è un grande compito educativo, che aiuta a non perdere le radici.

Il secondo compito è la preghiera, personale e comunitaria e, in modo particolare, la celebrazione della S. Messa per i defunti.

«Nell’azione eucaristica la liturgia terrestre è intimamente unita a quella celeste. Lo scambio di comunione tra i vivi e i morti di cui le Messe di suffragio per i defunti sono importante espressione, costituisce una testimonianza permanente della fede della Chiesa nel nesso inscindibile tra vita terrena e vita eterna» (card. A. Scola, al Sinodo sull’Eucaristia).

E torniamo ancora a quel dialogo alla finestra di Ostia, quando S. Monica dice ai figli: «Seppellirete questo corpo, dove meglio vi piacerà; non voglio che ve ne diate pena. Soltanto di questo vi prego, che dovunque vi troverete, vi ricordiate di me all’altare del Signore» (dalle Confessioni di S. Agostino Lib 9, 10-11).

Pregare per i defunti è squisita opera di misericordia spirituale: «…ma la mia anima prega sugli orizzonti senza suono, di là dai lidi sabbiosi, dov’è andata mia madre» (Betocchi, alla Chiesa di Frosinone).

 

«Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore» (S. Giovanni della Croce, Parole di luce e d’amore, 1, 57).

Il terzo impegno è la carità, l’elemosina. Per essere accolti un giorno da Lui, oggi è tempo di accogliere Cristo, vestire Cristo, visitare Cristo, amare Cristo, dar da mangiare a Cristo, ospitare Cristo nei poveri.

Quel giorno ci dirà: «Lo avete fatto a me» (Mt 25, 40), entra nella gioia.

è necessario fare cose buone «suggerite dal pensiero della risurrezione» (2 Mc 12, 43).

 

Il vocabolario della speranza. Quando ci ritroveremo?

 

Quando parliamo – se lo facciamo! – dei nostri cari defunti, di solito usiamo l’espressione: quando c’erano, quando erano in mezzo a noi, usando i verbi al passato remoto.

Il vocabolario della speranza, il lessico cristiano, ci invita a usare i verbi al futuro: non quando c’erano, ma quando ci ritroveremo, quando il Signore ritornerà.

Dobbiamo allenarci, nella palestra della vita, ad usare i verbi al futuro, a coniugare i tempi della speranza, grande deficit dei nostri giorni. Credere alla risurrezione non significa tornare al passato, al risuscitamento del cadavere, ma è guardare avanti, al corpo glorioso.

L’orizzonte ultimo illumina quello penultimo; le cose ultime danno senso alle opere di ogni giorno fino a quando Egli «eliminerà la morte per sempre» (Is 25, 8).

La speranza è, sulla parola del Risorto, un fidanzamento con il futuro (cfr Bernanos), nell’attesa di un consumato e definitivo incontro «…e così per sempre saremo con il Signore» (1 Ts 4, 17).

«Scrivi: d’ora in poi, beati i morti che muoiono nel Signore. Sì – dice lo Spirito -, essi riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono» (Apc 14, 13).

E sarà il Signore stesso a consegnarci l’ultimo vestito, il vestito della festa, fatto di carne glorificata.

All’inizio, dopo il peccato, «il Signore Dio fece all’uomo e a sua moglie tuniche di pelli e li vestì» (Gn 3, 21). L’uomo, che si ritrova nudo e ha paura (cfr Gn 3, 10), è avvolto dalla misericordia di Dio, a lui è consegnata nel tempo la veste bianca del Battesimo per essere rivestito di Cristo (cfr Gal 3, 27).

 

Alla fine, sarà ancora Lui, il Signore, a firmare il vestito dei risorti: «Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura:

La morte è stata inghiottita nella vittoria.

Dov’è, o morte, la tua vittoria?

Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (1 Cor 15, 54-55).

 

Il nostro ultimo appuntamento, l’appuntamento cosmico, è sulla piazza della Gerusalemme celeste (cfr Apc 22, 2).

Ci ritroveremo, o Signore, «quando, asciugata ogni lacrima, i nostri occhi vedranno il tuo volto e noi saremo simili a te e canteremo per sempre la tua lode» (dalla Liturgia, III Canone).

«Concedi anche a noi, al termine di questo pellegrinaggio, di giungere alla dimora eterna, dove Tu ci attendi» (dalla Liturgia, V Canone).

Come sarà bello in quella grande piazza, lastricata d’oro, essere riconosciuti e riconoscere, chiamati di nuovo per nome, come in una festa di paese e vivere per sempre (In vivis tu – Tu sei fra i vivi – epigrafe nei sotterranei in Vaticano), con il sorriso sulle labbra sapendo che la festa non finirà.

 

Una madre è stata, per ognuno di noi, il varco per entrare in questa vita.

 

Un’altra madre, Maria, sarà il varco per passare alla vita eterna, perciò la Chiesa, Maestra della Risurrezione, «Alleluia della storia» (card. Ursi), ci fa ripetere:

SantaMaria, Madre di Dio, prega per noi…

nell’ora della nostra morte.

«La morte per l’uomo non esiste.

L’uomo nasce due volte e non muore mai.

Dopo il grembo della madre, lascia anche il seno della terra per nascere al cielo» (P. Adani).

 

«E vidi un cielo nuovo e una terra nuova […]

Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:

 

[…] E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi

e non vi sarà più la morte

né lutto né lamento né affanno

perché le cose di prima sono passate.

 

[…] Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Apc 21, 1-5).

 

Nel frattempo – accogliendo, apprezzando, assaporando la vita – e pregando «il Dio della speranza che vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace» (Rm 15, 13) «accendi tutte le luci, prepara tutte le fiaccole, illumina tutta la casa della tua anima.

è notte, ma l’alba è certa, vicina.

Potrebbe giungere il tuo Signore a chiamarti con la voce che hai ascoltato fin da bambino.

Non si spenga la tua lucerna, alimentala con la lunga pazienza del soffrire…» (Donata Doni).

 

«Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14, 7-9).

 

Credis hoc?

Credi questo?

«Credo; aiuta la mia incredulità!» (Mc 9, 24).

 

Nocera Inferiore, 2 – XI – 2012

† Giuseppe, Vescovo

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