Mio Fratello ucciso per errore

NAPOLI – L’ultima vittima innocente dell’infinita guerra di camorra partenopea si chiama Pasquale Romano: studente trentenne ucciso a Marianella – zona Nord della città – alle 22 di lunedì scorso. Bersaglio incolpevole di un errore di persona , commesso da killer che solitamente vanno in giro ad ammazzare i rivali, su ordine dei clan, con armi in pugno e tanta cocaina in corpo. Una tragedia, la sua, che non colpisce solo la famiglia, gli amici, i residenti del comune limitrofo di Cardito  in cui risiedeva. Perché Pasquale “è solo l’ultimo agnello sacrificale di una lunga serie. Prima di lui, in Campania, altre 160 persone sono morte in maniera analoga: gente perbene freddata per sbaglio, o caduta nel fuoco incrociato di bande che sul territorio agiscono indisturbate. Molti non se ne rendono conto, ma da queste parti, anche se in teoria siamo in tempo di pace, si vive in trincea. Ed è ora di dire basta, di ribellarsi, di uscire dall’assuefazione e dire ‘no'”.

A lanciare – attraverso una lettera a Repubblica.it – questo appello ai suoi concittadini e all’intera società civile del Paese, è Pasquale Scherillo. Ha trentotto anni e vive e lavora a Casavatore, uno dei quartieri ai margini della città investiti, dal 2004 in poi, da quella i giornali definiscono “la guerra di Scampia”. Il conflitto tra cosche camorriste concorrenti, per il controllo del territorio e della zona di spaccio di droga più redditizia d’Europa. Lui, questa mattanza, l’ha vissuta sulla pelle. Visto che  suo fratello Dario, ventiseienne, fu la vittima casuale di un regolamento di conti dalla dinamica molto simile a quella di Romano: “Erano circa le 20,30 del 6 dicembre di otto anni fa, stava uscendo dalla scuola guida che gestivamo insieme (e di cui continuo ad occuparmi io). Parlava con un amico, discutevano di quando l’altro avrebbe dovuto sostenere l’esame per la patente. Era accanto al suo motorino, quando si avvicinano due pusher e sicari degli Scissionisti, che gli sparano alle spalle. Secondo gli investigatori il suo scooter era identico, per modello e colore, a quello della vittima designata, che era lì pochi secondi prima. Gli assassini, però, non sono mai stati individuati e catturati”.

Otto anni senza giustizia, per la famiglia Scherillo. E a ogni nuovo agguato simile – ce ne sono stati tanti, a cadenza quasi regolare, concentrati proprio in quella zona di Napoli – il dolore che si riaccende. All’allungarsi di questo lungo elenco di morti ammazzati senza colpa, ciascuno con una sua storia tragica: “Ai tempi di mio fratello, o poco dopo, caddero innocentemente Antonio Landieri, finito in mezzo a una sparatoria; Gelsomina Verde, freddata perché ex ragazza della persona sbagliata; Attilio Romanò, dipendente di un negozio di telefoni il cui titolare era il vero obiettivo”. Tra gli episodi più recenti il caso di Andrea Nollino, ucciso per sbaglio lo scorso giugno a Casoria, mentre apriva il suo bar. Il suo fu uno di quei casi che, almeno per un attimo, provocò un risveglio di coscienze, con una fiaccolata per dire basta alla violenza.

Malgrado la sofferenza risvegliata da ognuno di questi episodi, Pasquale Scherillo è riuscito a non farsi travolgere. A utilizzare la rabbia come molla per non arrendersi: “Ho fondato un’associazione a nome di mio fratello, che fa parte del Coordinamento campano delle vittime innocenti della criminalità, presieduto dal marito di Silvia Ruotolo (la donna uccisa nel 1997 nel quartiere Vomero, ndr). Centosessanta persone, civili caduti in una guerra assurda che nessuno vuole riconoscere come tale. Io da anni vado a dire queste cose nelle scuole, per cercare di educare alla legalità: elementari, medie, superiori. I bambini e i ragazzini ascoltano le mie parole, capiscono quando dico che non bisogna accettare la mentalità camorrista, che nessuno può dirsi al sicuro. I liceali, invece, hanno già troppa malizia, quella che qui a Napoli in gergo si chiama cazzimma: dicono che se uno si fa i fatti propri va tutto bene, che io parlo così solo perché ho avuto un lutto”.

Atteggiamenti che fanno riflettere. Perché, al di là delle istituzioni “che devono garantire la sicurezza per il territorio e soprattutto la certezza della pena per i camorristi”, il problema – a suo giudizio – investe in primo luogo “la tanta brava gente che vive in queste zone della città, e che di fatto è la grande maggioranza. Ma che si adegua troppo allo stato delle cose. Ad esempio, in quartieri come il mio esiste un coprifuoco non dichiarato: non si può uscire la sera tardi, e se lo si fa mai da soli: se un ragazzo va fuori si infila subito in una macchina con almeno altri tre ragazzi. Le persone si sono abituate a vivere così. Le leggi del territorio sono imposte dalla minoranza di delinquenti, che sfruttano la paura”. Da qui il suo appello a non arrendersi, a reagire: “Non tanto scendendo in piazza – conclude Pasquale – quanto dicendo no ogni giorno ai ditkat di quella gente, sfidandoli con le parole e i comportamenti, come Roberto Saviano ci ha insegnato. Denunciandoli, ogni volta che si può. A me non hanno mai chiesto il pizzo, se lo facessero chiuderei subito e andrei dalla polizia. Al di là delle questioni politiche i napoletani hanno votato sindaco un magistrato, il che è un buon segnale: ma adesso bisogna cambiare anche la nostra vita quotidiana”. In altre parole: noi stessi.

Repubblica.it

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